Don Pietro Lombardini

Pietro Lombardini nasce a Novellara, un paese della Bassa reggiana appena fuori della zona di golena del Po, il 24 luglio 1941, in pieno tempo di guerra. È un bambino vivace, sempre in movimento, che sopporta male le limitazioni e le imposizioni, appassionato di tutti i tipi di gioco da fare in compagnia di amici.

Bravo a scuola, chierichetto in chiesa, anche per questo gode di molta libertà. Concluso l’esame di quinta elementare, Pietro chiede di entrare in seminario: potrebbe partire subito coi seminaristi per le vacanze estive in montagna e divertirsi molto. Disperazione del padre, che vede svanire la continuità della ferramenta faticosamente conquistata, tranquillità della madre che gli fa una promessa: adesso è troppo piccolo per questa decisione, ma se manterrà questa intenzione potrà entrare in seminario dopo la terza media. Pietro continua la sua vita molto giocosa; concluso l’esame di terza media, comunica che entrerà subito in seminario.

I cinque anni nel seminario di Guastalla cominciano con una vacanza estiva in montagna, ma non saranno proprio una vacanza. Pietro accetta tutto, appare tranquillo e sereno, ma in età adulta, a sostegno di un’argomentazione in un gruppo di amici, affermerà di avere molto sofferto per la situazione di vita e l’impostazione della formazione religiosa di quel tempo.

Superato l’esame di maturità statale, il Vescovo gli comunica che per lui ha deciso la continuazione degli studi teologici a Roma: Università Gregoriana e Seminario Lombardo. Siamo nel 1960 e si apre una nuova fase della sua vita. Concluso il ciclo universitario, nel 1965 viene ordinato sacerdote. Di nuovo a Roma, continua gli studi all’Istituto biblico, fino al 1968.

È tempo di grande impegno nello studio, ma anche di grandi amicizie (alcune delle quali dureranno per tutta la vita), di contatti con papi e cardinali che spesso soggiornano al Seminario Lombardo. Questi anni di formazione romana sono anche gli anni di preparazione e svolgimento del concilio Vaticano II, vissuto con grande partecipazione e speranza.

Il tempo di Roma segna anche il tempo dei jeans e dei viaggi, dapprima in Europa per corsi linguistici, poi verso il Medio Oriente. Approfittando delle capacità organizzative di un compagno di studi e amico di Trieste (moto e tenda), estate dopo estate attraversano la Jugoslavia e si fermano prima in Grecia e Turchia, poi, negli anni successivi, si addentrano in Israele, in Libano, Siria, Giordania, Egitto.

Nel 1968 Pietro rientra nella sua diocesi, con l’incarico di insegnante di sacra Scrittura e teologia fondamentale nello Studio Teologico interdiocesano di Reggio Emilia [Lombardini apparteneva alla diocesi di Guastalla. Lo Studio teologico avviato nel 1968 nasceva dalla collaborazione tra le quattro diocesi di Reggio Emilia, Guastalla, Modena e Carpi. Nel 1970 il vescovo di Reggio Emilia, Gilberto Baroni, fu nominato amministratore apostolico e, successivamente, vescovo anche di Guastalla. Le due diocesi di Reggio Emilia e Guastalla sono state poi unificate nel 1986]. Sempre disponibile per corsi e conferenze ovunque lo chiamino, considera questo servizio alla Parola come la parte più rilevante del suo ministero sacerdotale, ma nello stesso tempo, pur non avendo incarichi pastorali, già nei primi anni di sacerdozio si mette a disposizione di comunità parrocchiali come quelle di Villarotta e Pieve di Guastalla.

Nel 1971, senza clamore ma per una scelta precisa, lascia la sua stanza in Seminario e va a vivere con altri sacerdoti e seminaristi in una casa di proprietà della diocesi di Modena, a Corletto, spostandosi ogni giorno a Reggio per l’insegnamento. Questa casa diventerà per i primi anni un luogo di incontro, di
preghiera e di amicizia, poi una buona convivenza, con una coppia di amici (Enrica e Piergiorgio): una situazione di vita che durerà complessivamente 25 anni.

Importante, in questo periodo (1971-2003), l’impegno di aggiornamento biblico presso la comunità Dehoniana di Modena, presso il Gruppo S. Francesco e il gruppo del Villaggio artigiano a Modena. Questa sua attività non si limita ai luoghi istituzionali (seminario) e ecclesiali (dai Dehoniani alle comunità di base di Modena, a parrocchia, a gruppi di monache, religiose e laiche) ma si estende ad ambienti laici anche oltre le province di Modena e Reggio (vedi ad esempio la lunga collaborazione con l’Associazione Biblia).

Significativa anche la decisione di non sottrarsi agli impegni della sua famiglia, in difficoltà per il lavoro e soprattutto per l’assistenza a sua sorella malata, dedicando a questo due giorni alla settimana per diversi anni.

Nel 1974, Pietro prende posizione in favore della libertà di coscienza dei cattolici nei confronti del referendum di abrogazione della legge sul divorzio, esponendone le ragioni su una rivista laica locale. La motivazione dichiarata è l’esigenza di alleviare il tormento di quei credenti che si apprestavano a votare secondo coscienza contro le direttive dell’istituzione ecclesiastica. La conseguenza è la sospensione dall’insegnamento nello Studio Teologico per un anno, tempo che Pietro dedicherà alla direzione del Centro Studi Religiosi della Fondazione S. Carlo di Modena.

Sicuramente questo episodio provoca emarginazione rispetto al clero reggiano, ma non interrompe la comunione di Pietro con il suo vescovo, mons. Gilberto Baroni, che continua ad essere improntata alla stima, nel rispetto delle argomentazioni e dei ruoli reciproci.

A partire dai primi anni ’90, Pietro è anche tra i promotori-docenti di un corso di ebraico a Reggio, dedicato alla conoscenza della lingua (ebraico biblico e moderno) e all’approfondimento della cultura ebraica nella sua espressione antica e nella sua realtà attuale.

Nel frattempo la relazione di Pietro con Israele e con l’ebraismo si approfondisce sempre più e diventa centrale nella sua vita e nei suoi studi: un intero anno sabbatico passato a Gerusalemme, lunghi soggiorni estivi, progressiva padronanza della lingua, amicizie sul posto sia con italiani là residenti sia in ambienti ebrei, ortodossi e laici. L’ultimo soggiorno a Gerusalemme sarà nell’estate 2004.

Nel 1996 Pietro rientra a Novellara e si sistema in un appartamento della famiglia, portando con sé montagne di libri, che continueranno ad aumentare.

E lo stesso anno accetta volentieri di mettersi a disposizione della comunità parrocchiale di S. Pellegrino a Reggio Emilia nei giorni di sabato e domenica. Continuerà questo impegno finché la salute glielo permetterà. È un’esperienza nuova, che gli permette di stabilire relazioni profonde con gli altri sacerdoti e con molti giovani, anziani e famiglie della parrocchia. È come se il suo ministero sacerdotale, sempre centrato sul servizio alla Parola, provasse in questa esperienza un ulteriore arricchimento e compimento.

La primavera del 2005 segna un’improvvisa, dolorosa svolta nella vita di Pietro, per una diagnosi di metastasi tumorale al cervello. Pietro affronta e vive la malattia accettando cure, delusioni, progressiva perdita dell’autonomia con coraggio e grande serenità, mantenendo spesso il sorriso e sempre uno sguardo accogliente per le persone che incontra.

Pietro è morto una domenica mattina, 16 settembre 2007. Su un foglio affidato alle sorelle per disporre dei suoi amati libri, ha scritto: «Mi affido alla misericordia del Nome e alla memoria di chi mi ha incontrato».

Pietro Lombardini non ha lasciato molte pubblicazioni. La maggior parte del suo lavoro di studio, di ricerca e riflessione – documentato dagli oltre 150 suoi manoscritti rimasti – aveva per destinatari gli uditori che incontrava, vuoi nelle aule di scuola, vuoi nelle più diverse situazioni nelle quali gli era richiesto qualche intervento. Era il contesto di relazione immediata quello nel quale Pietro si trovava più a suo agio, è il luogo dove il suo pensiero poteva esplorare territori anche labirintici e raccordare questioni di attualità bruciante (ad esempio l’eterno conflitto israelo-palestinese, i risorgenti fondamentalismi, le peripezie del confronto tra ebraismo e cristianesimo) con la riflessione trasmessa nei secoli dalle Scritture e dal loro incessante commento nella tradizione di Israele.

In questi interventi prevale una chiave di lettura e una linea di approccio ai temi che raccoglie quello che, da un lato, è stato il «lavoro» fondamentale di Pietro Lombardini, e cioè l’insegnamento delle Scritture; dall’altro, attesta la progressiva sua attenzione nei confronti di Israele e della sua tradizione. Il significato di questo percorso è stato chiarito dall’autore stesso, in un testo che è opportuno citare quasi integralmente, anche perché si ricollega a una delle sedi di incontro alle quali Lombardini era più legato: gli «Incontri biblici» promossi annualmente dalla Comunità Dehoniana di Modena.

«Devo, anzitutto, un ringraziamento per l’ospitalità e per l’accoglienza in questo luogo e, soprattutto, per un fatto: mi ha permesso di sperimentare nella durata, nel passaggio da una generazione all’altra, la Parola come luce e come nutrimento della comunità cristiane e del popolo di Dio in cammino nella storia.

Questo è “tradizione” in senso proprio: passaggio, cioè, della vita da una generazione all’altra […].

Questi incontri hanno contribuito ad alimentare in me la consapevolezza del rapporto profondo e decisivo tra ebraismo e cristianesimo. Gli incontri che ho fatto sono tutti sull’Antico Testamento. Non so quanto, all’inizio, fosse consapevole in me la scelta di limitare i miei interventi nell’ambito veterotestamentario. Certo, all’inizio, è stata decisiva l’esperienza conciliare della Dei verbum, e, in contemporanea, la lettura di opere di autori della tradizione cristiana contemporanea, come de Lubac, Dupont e altri. L’unità della Scrittura, l’impossibilità di comprendere il Nuovo Testamento senza l’Antico Testamento, cioè senza un “va e vieni” reciproco e non soltanto in senso unilaterale, l’esperienza di come il Nuovo Testamento stesso venga a mancare di profondità e di umanità, se non è continuamente preceduto dal racconto veterotestamentario della storia dell’umanità e del cammino di Israele.

Successivamente, lungo questi incontri, è avvenuto in me un superamento, come per altri della mia generazione: il riconoscimento che il primo passo, dal Nuovo all’Antico Testamento, andava maggiormente esplicitato fino ad arrivare al riconoscimento dell’indipendenza di senso della Bibbia ebraica, in quanto Scritture prodotte da un ebraismo, non solo allora,  ma anche oggi custodite e interpretate da un ebraismo tuttora vivente, tuttora in ascolto interpretante della Parola.

A questo punto la situazione per me diventava più complessa, perché mi trovavo davanti un solo Libro e due eredi dello stesso: l’erede ebraico e l’erede cristiano. Problema complesso, perché ritenersi gli eredi legittimi non significa essere eredi buoni. Qui per me, esistenzialmente, vi è stato l’insorgere di un paradosso che dura tuttora e che intendo mantenere aperto: imparare a riconoscere l’altro che è in me rispettandolo come altro, diverso, senza sopprimerlo, accogliendolo e riconoscendolo come fratello, come partner di una stessa elezione e di una stessa alleanza, anche se vissuta per due strade diverse. Anche con una valenza pedagogica: imparare a definirmi, per esempio, per un’appartenenza a Cristo senza per questo voler affermare una propria scontata superiorità spirituale o morale su Israele.

Un terzo superamento, forse più mio che di altri, è stato quello di aver maturato un interesse fortissimo per l’ebraismo entrato nella modernità e nell’averne subito in modo molto forte il fascino. Un ebraismo nelle sue molteplici manifestazioni culturali e nel sempre risorgente antisemitismo, da sorvegliare continuamente. La lettura di grandi personalità ebraiche del nostro secolo, come Buber, Scholem, Rosenzweig, Levinas e altri mi hanno indicato la strada di un dialogo ebraico-cristiano che parte dall’accettazione, dalla conoscenza delle rispettive tradizioni religiose, che implica anche la consapevolezza della distanza, per giungere ad accostarsi alla cultura dell’altro che arricchisce.

In questi vent’anni, mi sono sempre proibito, anche per quello che riguarda l’ascolto e l’interpretazione delle Scritture che abbiamo avvicinato, una dissociazione tra fede e storia, tra carne e anima, tra lettera e spirito, tra lettura storico-critica e lettura spirituale. Se mi si passa l’espressione ebraica, ho sempre cercato di “onorare le ali ripiegate dello spirito”, cioè quella lettera della Scrittura osservabile da tutti, udibile da tutti, nella paziente lettura delle lettere, l’amore per la Parola, che implica il metodo storico-critico, e, nello stesso tempo, lavorare perché le “ali” di questo spirito si aprano, si spieghino attraverso il lettore e l’ascolto credente; mai senza il lettore credente, mai senza il gruppo credente, mai senza l’apporto attuale dell’uditore, affinché la Parola parli oggi con lo stesso soffio profetico che l’ha ispirata allora. Devo confessare che su questo ho trovato spesso più ricchezza interpretativa nel commento ebraico che in altri commenti.

Da ultimo, ho imparato che nel rapporto, nel passaggio, permanente, da rifare sempre, tra Antico e Nuovo Testamento, si gioca il futuro del cristianesimo. In questo passaggio è prefigurato il passaggio dall’evangelo ai popoli. Rispettando la vocazione e il cammino di Israele tra le nazioni appare nello stesso tempo, meglio, la vocazione cristiana. Il peso del suo appello e la gravità delle sue mancanze. Come Gesù è il frutto di una genealogia, così la Chiesa è nata e nasce dall’attesa e dalla fede ebraica. Se i popoli di cultura cristiana non sanno riconoscere il loro radicamento in questo popolo, in questa cultura, se essi sono fieri della loro rottura e se l’oblio della loro origine e della religione precedente salta agli occhi, essi susciteranno la diffidenza dei popoli e delle religioni del mondo. La giustizia resa al popolo ebraico non è soltanto un imperativo della verità ma anche il segno che i popoli cristiani sono capaci di accogliere coloro che rimangono estranei a essa. Sarebbe possibile mostrare storicamente come ‹nel quadro di una› teologia della sostituzione, nella misura in cui le chiese cristiane hanno resistito a riconoscere il ruolo di Israele nella loro nascita, nella stessa misura… i popoli cristiani non sono riusciti ad avvicinare le altre culture con il rispetto di cui avevano beneficiato. Nella misura in cui non sono riusciti ad accogliere l’altro, che è Israele, non hanno saputo nemmeno accogliere gli “altri”.

Certo in tutti questi incontri biblici è sempre stata la questione messianica che ha distinto la chiesa da Israele, ma non certo la questione della santità da vivere in quanto tale. È maturata in me, in questi vent’anni, la convinzione del compito-vocazione comune per ebrei e cristiani, cioè il tener viva la speranza in una storia trasformata che è ancora davanti a ebrei e cristiani.

Credo di aver imparato un po’ di più, in mezzo a voi, che il test per verificare il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento lo si ha quando s’impara che le cose buone sono quelle autenticamente reciproche; quando la salvezza di una comunità non significa la condanna di un’altra; quando gli eventi che ci danno speranza non gettano gli altri nella disperazione; quando la realizzazione della terra promessa non viene scambiata con l’esilio degli altri. Quando avvengono questi momenti di salvezza inclusiva, quando il senso della mia appartenenza non annulla l’altro, ma in qualche modo lo accoglie, lo riceve, ne gode e se ne arricchisce, allora credo che le “ali dello spirito”, la lettera della Scrittura si apre e ci porta alla comprensione della Scrittura come la voce di un Altro.

Credo di avere imparato meglio a mantenere la diversità, ma una diversità riconciliata, dialogica, perché in fondo ebrei e cristiani appartengono pur sempre a un’unica alleanza, anche se camminano all’interno di questa alleanza per strade diverse».

Così, dunque, Pietro Lombardini chiariva, in una riflessione elaborata circa quindici anni prima della sua morte, il significato di un itinerario personale e intellettuale che, negli anni successivi, si è andato confermando con sempre maggiore chiarezza.

 

mons. Vescovo Daniele Gianotti 

 

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